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Il fotoromanzo: una droga legaleDieci milioni di lettori per un'autentica contraffazione della realtà

Il fotoromanzo: una droga legale

Bastano venti giorni per fare un fotoromanzo; e costa dai 15 ai 20 milioni - Fu un trampolino di lancio per futuri attori celebri - Più lettrici che lettori: operaie, casalinghe, domestiche - Delitti, intrighi a sfondo erotico, smania di denaro e di potere, gelosia, sensualità; ma si rasenta abilmente il Codice senza violarlo Una funzione mitica: le lettrici si identificano in ciò che leggono, i lettori ne fanno oggetto di desiderio

La formula è semplice, la realizzazione agevole, il successo garantito. Ci sono un «lui» e una «lei», gli altri e le altre. «Lui» è simpatico, piuttosto giovane ma non troppo, abbastanza aitante, professione suggestiva. «Lei» è attraente, alquanto più giovane di «lui», alta, personalità spiccata ma arrendevole in amore. Gli altri e le altre gravitano intorno a «lei» e «lui» come pianeti intorno al sole. «Clic», si gira. Il fotoromanzo è pronto in pochi giorni. Lo leggono milioni di italiani e di stranieri, dal Brasile alla Francia, dall'Argentina alla Germania, dal Sud America all'Africa del Nord. È un giro di miliardi di lire, di milioni di «cruzeiros» e di franchi, di «pesos», di marchi e di dollari. Le storie del fotoromanzo — definito il «fumetto dei poveri» — sono quasi sempre fatte con gli stessi ingredienti.

La percentuale più alta è quella delle lettrici, divoratrici di storie d'amore fotografico le quali, pur essendo intrecciate e poliziesche, mettono tuttavia al bando le relazioni illegali, l'adulterio e tutto quanto contrasta con la moralità di ogni giorno. «Il fotoromanzo — ha detto il prof. Roberto Carlo Quintavalle — svolge nella società dei consumi una precisa funzione mitica. Le storie di amore, di passione e di morte si identificano con le lettrici, mentre appaiono come oggetto di desiderio por i lettori. Ma che cosa è esattamente un fotoromanzo? Vediamo.

Nato alla fine degli anni Quaranta come figlio invalido del cinema, il fotoromanzo ha cercato di raccontare por mezzo di immagini fotografiche le storie evasive del fumetto disegnato. I protagonisti lottano sempre contro veti e pregiudizi. Il contrasto di partenza è sempre fra legalità e sessualità. Si lotta in continuazione contro la legalità, ma essa finisce sempre col prevalere. Prima personaggi e storie erano astratti, adesso cercano di avvicinarsi ai problemi di ogni giorno. Per fare un fotoromanzo occorrono una ventina di giorni. Si possono eseguire anche 70-80 inquadrature al giorno. Scelti i personaggi e i luoghi dove deve svolgersi l'azione, la macchina fotografica non ha attimi di sosta. Interpreti dei primi fotoromanzi sono stati, in Italia, futuri notissimi artisti quali Sofia Loren, Gina Lollobrigida, Mike Bongiorno, Vittorio Gassman. È un bel trampolino di lancio. Dalle immagini fotografiche stampate su carta patinata si passa spesso al cinema. I registi dei fotoromanzi sono sovente i medesimi del cinema, ma preferiscono nascondersi dietro pseudonimi.

Un fotoromanzo costa in media dai 15 ai 20 milioni. Ciascuna copia viene venduta dalle cento alle trecento lire. A una media di duecento lire la copia, fa un introito settimanale di due miliardi per gli editori. Se poi si pensa che i dieci milioni di lettori italiani non si limitano a comprare un solo fotoromanzo per settimana, si arriva a cifre di vari miliardi. La fiorente industria del fotoromanzo italiano ha gettato le proprie radici all'estero. Il «copyright» frutta altri miliardi in valuta estera. Gli editori italiani di «fumetti dei poveri» hanno conquistato da tempo i mercati editoriali di quasi tutta l'America del Sud, dell'Africa del Nord e dell'Europa. «È un mercato che continua ad espandersi, per nostra fortuna», mi ha dotto un fabbricante di fotoromanzi. «"Clic", si gira»: una formula magica.


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Baci, lacrime e passioni prima delle telenovelas. Un genere letterario bistrattato e pure molto amato. Nato settant’anni fa in Italia, in questi giorni la Francia lo celebra con una mostra

Cari cinematografari, mettetevi a lavorare I fotoromanzi sono nati in Italia giusto settant’anni fa, ma li celebrano in Francia, con una mostra a Marsiglia: aperta da pochi giorni, si può visitare fino al 23 aprile. “Hanno avuto una cattiva stampa”, esordisce il relativo catalogo. Per la sinistra erano uno strumento del capitalismo per rimbecillire le masse, anche se nel 1949 l’allora 27enne Enrico Berlinguer da segretario dell’appena ricostituita Federazione giovanile comunista italiana aveva dedicato proprio “alle ragazze che leggono Grand Hôtel” la prefazione a un’antologia edita dalla stessa Fgci. “Si dice anche, fra di noi – e molti, non lo nascondo, se ne rammaricano – che molte siano le ragazze, anche tra quelle politicamente più evolute, che hanno in Grand Hôtel la lettura più appassionante”, riconosceva. “Si esagera, forse, e, in ogni caso, non si considera e non si comprende quanto difficile sia oggi, per una ragazza, avere una scelta felice nel gran mare di mercato librario che è grande nella quantità quanto insufficiente e povero nella qualità e nella varietà. A meno che non si pretenda – e noi non pretendiamo di certo, perché sappiamo comprendere le ragazze e perché giovani siamo anche noi – che le ragazze leggano solo di filosofia o di catechismo”.

Fanno "sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi", scriveva Enrico Berlinguer

Insomma, prometteva il futuro teorico del compromesso storico, “non è davvero nelle nostre intenzioni negare alle ragazze il diritto di scegliere le loro letture, di appassionarsi ad avventure o a vicende d’amore”. Dopo la lisciata, però, l’ammonimento: “Alle volte, in chi scrive quelle avventure, in chi immagina quelle storie di amore, vi è l’intenzione di farci palpitare per le avventure di altri, di farci sognare qualcosa che non appartiene al nostro mondo per impedirci di aprire gli occhi, di unirci, di operare per rimuovere insieme gli ostacoli che impediscono a tante ragazze di conquistarsi un loro avvenire, portare a compimento il loro sogno d’amore, di avere tutte la loro famiglia e di raggiungere la loro felicità in una società che più non conosca, per i pochi, il privilegio, il lusso, il capriccio e, per i molti, l’umiliazione, lo scherno, la miseria”.

Ma anche la chiesa cattolica li considerava immorali, salvo poi Famiglia Cristiana utilizzare proprio la tecnica del fotoromanzo per illustrare alcune vite di santi. Naturalmente, ai bambini i fotoromanzi erano vietatissimi. Ma invece in questa mostra è prevista proprio un’attenzione speciale per le visite scolastiche. “Il pubblico scolastico non ha conosciuto l’età d’oro del fotoromanzo”, spiega Marie-Charlotte Calafat, una delle due curatrici della mostra. “Non immagina certamente l’infatuazione popolare che il fotoromanzo ha suscitato negli anni 1960-70”. Gli anni in cui in Italia le ragazze coprivano le pareti delle loro stanze con i poster di divi come Franco Gasparri, Jean Mary Carletto, Nuccia Cardinali, Adriana Rame, Michela Roc, Katiuscia, Claudio De Renzi, Gianni Vannicola, Alex Damiani, Franco Dani, Sebastiano Somma, Claudia Rivelli: quest’ultima sorella di quella Francesca Romana Rivelli che, di cinque anni più giovane, per sfondare al cinema senza l’ingombro di quel cognome già famoso avrebbe scelto lo pseudonimo di Ornella Muti. Marie-Charlotte Calafat spiega anzi che una visita a una mostra del genere oggi è perfino educativa, trovandosi il fotoromanzo “all’incrocio di diverse arti”: il cinema, il fumetto e la fotografia. “Noi siamo quotidianamente immersi nella fotografia, che è un’arte largamente diffusa”. I ragazzi possiedono dunque i codici di lettura per percepire, attraverso le immagini, “l’evoluzione della società e delle mentalità nel corso del XX secolo. Il soggetto stesso dell’esposizione, il fotoromanzo, è un supporto pedagogico allo stesso tempo originale e efficace”.

E sì che gli intellettuali, su tutti, li demonizzavano come espressione di cattivo gusto e di incultura. “Sapere”, famoso programma educativo della Rai anni Sessanta e Settanta, in una storia del romanzo d’appendice ne riconosceva un’evidente parentela: sia nella tecnica del racconto a puntate; sia nei toni strappalacrime. Ma poi spiegava che mentre da Victor Hugo a Eugène Sue e Alexandre Dumas o Charles Dickens i grandi autori del feuilleton erano stati alfieri dell’emancipazione delle classi popolari e avevano implicitamente denunciato le ingiustizie sociali, i fotoromanzi invece “addormentavano le coscienze”. Ogni tanto, però, qualche intellettuale ne copiava la tecnica per fare qualche esperimento avanguardista. Da ultimo, adesso li esaltano addirittura come un’icona della cultura mediterranea. Tant’è che li espongono al Mucem: quel Museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo che è stato inaugurato a Marsiglia nel 2013 quando la città fu capitale europea della cultura, e che nel 2015 è stato premiato dal Consiglio d’Europa. Sede: il Forte Saint-Jean, fatto edificare dal Re Sole sui resti di un ospizio dei Cavalieri Ospedalieri, e in seguito carcere della Rivoluzione francese e centro di addestramento della Legione straniera.

Proiezione mediterranea, allestimento transalpino, ma a partire soprattutto da un “tesoro” nostrano. Vediamo ad esempio i due giovani teneramente abbracciati che si baciano appassionatamente su un tappeto di foglie morte: un’immagine che potrebbe essere senza tempo, non fosse per quella brillantina di lui, quella crocchia di lei, quelle giacche e quel plaid che ci danno una datazione inconfondibilmente pre- ’68. Infatti è un fotogramma del 1967: più precisamente un’immagine di “Gioventù delusa”, pubblicato sul numero 1.043 di Bolero Film. Poi c’è un uomo in camice da medico che dà a un collega un cazzotto in posa particolarmente plastica, davanti a un letto d’ospedale e a un’infermiera che si mette una mano davanti alla bocca in un gesto tra lo spavento e la sorpresa. E questa è da “Il figlio rubato”: sempre Bolero Film del 1967, ma numero 1.060. Altro bacio appassionato, con un lui in giacca e cravatta: Bolero Film 675 e qui siamo al 1960, “Qualcosa che si chiama onore”. Altra immagine da “Gioventù delusa”: una donna buttata a terra che piange, ma su un tappeto e con un tailleur, una borsetta e un paio di tacchi alla Audrey Hepburn che forse sarebbero più ancora anni Cinquanta che Sessanta. Tutto tratto da “Le trésor de Mondadori”, come viene appunto definito. L’“impressionante fondo” con la collezione assolutamente inedita degli archivi fotografici di Bolero Film, che ha dato all’altra curatrice dell’esposizione Frédérique Deschamps la folgorazione da cui è nata questa iniziativa.

Dopo una premessa dedicata ad alcune anticipazioni, dal “Tesoro Mondadori” parte il percorso espositivo che poi nella prima parte continua con quel “Nous deux” che è stato il più importante magazine di fotoromanzi francesi e con il fotografo Thierry Bouët. Nella parte seconda ci sono poi i percorsi in parte autonomi di “avatar e dirottamenti”: il fotoromanzo erotico-nero, quello comico-satirico, quello onirico-surrealista. Forse perché meno si ricorda di meno, sembra assente quel filone del fotoromanzo in costume storico che pure fra anni Cinquanta e Sessanta circolava. “Gli incensurati” era un film del 1961 in cui Peppino De Filippo per soddisfare i dispendiosi capricci della moglie a un certo punto si improvvisava tra l’altro Mosè in una improbabile versione fotoromanzata dei “Dieci Comandamenti”. Sono evoluzioni che comunque non hanno mai raggiunto la popolarità del fotoromanzo sentimentale. “Milioni di negativi”, spiega la Dechamps sul “Tesoro Mondadori”. “Un fondo tanto più eccezionale se si pensa che gli originali serviti per l’elaborazione dei fotoromanzi sono stati raramente conservati e archiviati, non essendo mai stati considerati come una forma d’arte”. E invece secondo lei “le immagini della collezione Mondadori sono di una grande qualità tecnica. Portatrici di una estetica molto padroneggiata, esse sono formalmente prossime all’estetica che si ritrova nel cinema del dopoguerra italiano, il neorealismo”.

La tiratura era cresciuta dall'1,6 milioni di copie dagli anni 50 agli 8,6 milioni del 1976 (5 milioni solo per il gruppo Lancio)

Eh sì. In francese li chiamano “roman-photo” o “photo-roman”. In spagnolo si parla di “fotonovela” o di “fotohistoria”: termine quest’ultimo che è passato anche al portoghese. E questa terminologia latina è essenziale perché, spiega sempre il catalogo, “se il genere è stato inventato in Italia, ha conosciuto molto rapidamente un successo crescente ed è stato esportato in numerosi paesi del bacino mediterraneo e dell’America del Sud”. Se in Francia nel 1957 il magazine di fotoromanzi “Nous Deux” vendeva un milione di copie a settimana, in Italia la tiratura era cresciuta dall’1,6 milioni di copie dagli anni Cinquanta agli 8,6 milioni del 1976, di cui 5 milioni per le sole riviste del gruppo Lancio. “Al contrario”, osserva sempre il catalogo, “i paesi anglosassoni non sono stati toccati da questo gusto per il fotoromanzo. Di cultura protestante, il rapporto con i racconti per immagini vi è più complicato”. L’avete capito allora perché Famiglia Cristiana aveva poi finito per riscattarli?

Tuttavia il termine esiste anche in inglese: “photo comics”; ma si dice anche “photonovels” e perfino “fumetti”, col termine che in italiano viene invece usato per quel che nella lingua di Shakespeare sono i comics. E in tedesco sono i Fotoroman o Fotocomic. Ma la lingua in cui furono inventati è appunto la nostra, a partire da quel primo fotoromanzo che uscì l’8 maggio del 1947 su Il mio sogno, “settimanale di romanzi d'amore a fotogrammi”, la parola ancora non è stata creata, edito dalla Editrice Novissima di Roma, di proprietà di un Giorgio Camis De Fonseca socio della Rizzoli. Prima storia: “Nel fondo del cuore” su soggetto di Stefano Reda, giovane giornalista appassionato di letteratura. La seconda fu invece “Menzogne d’amore” su soggetto di Luciana Peverelli, affermata scrittrice di romanzi rosa. Con Bolero Film la Mondadori rispose quasi subito, il 25 maggio del 1947. In realtà i due progetti erano maturati più o meno in contemporanea… Il tipo di trame era stato anticipato dal Grand Hôtel della prefazione di Berlinguer, lanciato dai fratelli Del Duca l’anno prima: ma lì le storie erano ancora disegnate, come nel fumetto tradizionale.

Il 1947 è anche l’anno in cui Giuseppe De Santis ebbe la prima idea di “Riso amaro”. Era un film di denuncia sociale, però si svolgeva con toni forti tra il fotoromanzo e il Gran Guignol. E lo stesso voluto equivoco era giocato sugli shorts inguinali ante litteram e sulle calze nere di Silvana Mangano: allo stesso tempo costume da mondina più che filologico, ma addosso a un’attrice con quel fisico anche esplosiva icona sexy. Insomma, fino a quel momento il neorealismo aveva entusiasmato i critici, annoiato il pubblico e inferocito quei politici che come Giulio Andreotti si preoccupavano per l’immagine all’estero dell’Italia in ricostruzione. Quando due anni dopo “Riso amaro” uscì, sbancò il botteghino: prima tappa di quella contaminazione tra avanguardia cinematografica e gusto popolare che poi nella ulteriore combinazione di neorealismo e commedia dell’arte di “Pane, amore e fantasia” avrebbe definitivamente lanciato il boom della commedia all’italiana.

Rapporti stereotipati, ma proprio le passioni da fotoromanzo partecipano alla rimessa in causa del matrimonio borghese

Si sa ormai che il neorealismo in origine quegli scenari dal vero, attori non professionisti e pellicole scadute li aveva inventati solo per la spaventosa povertà di mezzi del dopoguerra: ma gli stessi intellettuali che avrebbero disprezzato il fotoromanzo ne erano stati folgorati. E’ abusivo pensare che anche l’idea di realizzare fumetti di foto sia nata da esigenze di risparmio del genere? Be’, chi aveva scritto i soggetti di “Sciuscià”, “Ladri di biciclette”, “Miracolo a Milano” e “Umberto D.”? Cesare Zavattini: lo sanno tutti. E chi aveva avuto con Mondadori l’idea di lanciare Bolero Film? Sì: sempre Zavattini. Anche se questo è molto meno noto. E sapete chi fu a dirigere i primi set di “Il mio sogno”? Damiano Damiani: il futuro regista della “Piovra”, che un po’ fotoromanzo non è che non lo sia. Insomma, la parentela tra uno dei generi cinematografici che la cultura alta ha più amato e uno dei generi narrativi che più ha disprezzato è sorprendentemente stretta! L’uno e l’altro egualmente figli di quell’Italia del dopoguerra affamata di rinnovamento e di benessere. “Il fotoromanzo nasce in Italia proprio dopo la Seconda guerra mondiale e risponde alla domanda di evasione e di sogno di tutta una generazione marcata da un conflitto lungo e doloroso”, spiega il catalogo. C’erano state varie anticipazioni: da alcuni tipi di cartoline che all’inizio del ‘900 proponevano storie a puntate al fumetto. Ma il fotoromanzo nasce in un momento “in cui la fotografia trova un posto sempre più grande nei giornali e nella letteratura. Sinonimo di modernità, la fotografia offre ai lettori di fotoromanzi un sentimento del reale: leggere una storia incarnata non più da personaggi disegnati ma da persone vere rinforza l’empatia, l’identificazione e la proiezione presso il lettore”.

La crisi viene poi negli anni Ottanta, nel momento in cui la tv commerciale ormai spalmata sulle 24 ore in una varietà di canali mette a disposizione una offerta di soap operas e telenovelas i cui personaggi in movimento sono ancora più reali di quelli statici delle foto. Nel frattempo, però, il fotoromanzo ha accompagnato l’evoluzione dei costumi. “A un primo approccio il rapporto uomo/donna nei fotoromanzi è estremamente stereotipato, la salvezza della donna passa soprattutto attraverso l’incontro amoroso”. Ma in realtà proprio le passioni da fotoromanzo “partecipano alla rimessa in causa del matrimonio borghese”, fino alla rivoluzione dei costumi degli anni Settanta. “Questa società che stava cercando nuove forme di riorganizzazione della coppia, della sessualità e dei figli, ha improvvisamente considerato che l’amore era prigioniero e che niente poteva essere più bello che liberarlo”. Parole di Marcela Iacub: saggista franco-argentina famosa non solo per i suoi scritti nel campo del femminismo e della bioetica, ma anche per quella relazione con Dominique Strauss-Kahn da lei poi portata in piazza in un libro per cui poi lo stesso DSK l’avrebbe citata in tribunale. Spiega sempre Marcela Iacoub, “il fotoromanzo ha dunque attivamente partecipato a questo immenso movimento di rimessa in causa del matrimonio borghese al fianco delle femministe, dei sessuologi, della pianificazione familiare, degli intellettuali”. Insomma Bolero Film e Grand Hôtel hanno finito per essere più rivoluzionari delle antologie in cui Berlinguer li criticava.


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Nato in Italia nel 1947, il fotoromanzo ha conosciuto un successo immediato, e per più di venti anni è stato uno dei protagonisti dell’editoria internazionale. In Francia ha esordito negli anni cinquanta grazie al settimanale Nous deux. Nel 1957 il giornale contava un milione e mezzo di persone che lo leggevano, ed erano soprattutto lettrici.

Nonostante la sua grande popolarità, per molto tempo è stato considerato un genere minore della letteratura e raramente ha catturato l’attenzione degli storici dell’immagine o quella dei musei, o di altri centri dedicati all’arte. Una mostra al Mucem di Marsiglia ne ripercorre la storia, dalle origini alle influenze sugli artisti contemporanei.

Trecento le opere esposte, tra cui riviste, fotografie originali, prove d’impaginato, film, e materiali inediti provenienti dalla collezione Arnoldo Mondadori, editore che tra gli anni quaranta e ottanta pubblicò migliaia di fotoromanzi.

Attrici famose come Sophia Loren e Gina Lollobrigida hanno posato per queste riviste, anche se molti accusavano le pubblicazioni di sentimentalismo e di perversione. Parte della mostra è anche dedicata alla diffusione del genere in Spagna, Libano, Argentina.

Anche se l’età d’oro del fotoromanzo è finita, alcune riviste sono sopravvissute, come Noux deux, considerata dal semiologo e scrittore francese Roland Barthes – affascinato dal genere – “più oscena di Sade”. Oggi la rivista distribuisce 350mila copie a settimana e si può leggere anche su tablet.


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Da Gramsci a Franco Gasparri: il ritorno del fotoromanzo e la paraletteratura

Ogni tassonomia letteraria, dalla più rigorosa alla più approssimata, mette all’ultimo posto la cosiddetta letteratura da edicola. Spinazzola la chiama “letteratura marginale”, Gramsci la chiama “paraletteratura”, Schulz-Buschhaus “trivialliteratur”, ma il senso è identico. Spinazzola la descrive come «pubblicazioni che banalizzano, involgariscono, imbastardiscono tendenze già sfruttate, appiattendosi nella serialità ripetitiva». Gramsci le riconosce un valore positivo, soprattutto perché è adatta a soddisfare i bisogni di masse con strumenti culturali ridotti. Su di essa scrive: «rappresenta un elemento attuale di cultura, degradata quanto si vuole, ma sentita vivamente». Schulz-Buschhaus invece, inserisce il termine in un contesto molto più ampio e vaporoso. La sua “Trivialliteratur” è un «fenomeno testuale situato nei bassifondi della letteratura». Nel concetto di paraletteratura, comunque si voglia declinarlo, rientrano le cosiddette “pubblicazioni da edicola”. Quasi mai hanno un codice ISBN, quindi non solo non sono considerate cultura in senso stretto ma non vengono annoverate tra i libri.

Il fotoromanzo In questa non distinzione c’è tutto il distacco tra forme “alte” e “basse”, tra un mondo culturale astratto e lontano e il nazionalpopolare. Eppure, proprio in Italia, a partire dal secondo Dopoguerra, nasceva un genere che assunse grande importanza e che generò livelli di vendite sostanziose: il fotoromanzo. La paternità del fotoromanzo è di due grandi nomi: Damiano Damiani e Cesare Zavattini. Proprio quest’ultimo sceneggiò gran parte neorealismo italiano: Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Il cappotto, Bellissima sono solo alcuni dei film che hanno visto Zavattini soggettista e sceneggiatore. L’idea è semplice: un fumetto, rivolto prevalentemente a un pubblico femminile, senza protagonisti animati ma con bellocci ritratti in foto. Spiega Mario Sprea, sceneggiatore per oltre vent’anni e ad oggi direttore di “Kolossal”: «Prendevamo gli attori per strada, vicino a via Veneto. Avevano delle facce bellissime e si accontentavano di pochi soldi». L’idea funzionò da subito, e contribuì persino ad insegnare a leggere a molte ragazze della neonata Repubblica.

L’ascesa del fotoromanzo Negli anni Sessanta e Settanta il «boom» coinvolge anche questo tipo di pubblicazioni e si afferma la “Lancio”, casa editrice specializzata in fotoromanzi che pubblica “Sogno”. Si tratta di una rivista capace di assumere di fatto il monopolio nel campo e sfondare anche all’estero. Il fotoromanzo diventa fenomeno di costume, capace di regalare brividi alle ragazzine sottoposte ad una rigida educazione, farle sognare con baci appassionati, pose lascive e petti nudi. Su “Sogno” sono apparsi Sophia Loren (sotto il nome di “Sofia Lazzaro”), Raffaella Carrà, Mike Bongiorno, Loretta Goggi, Johnny Dorelli. In seguito, si affermò una vera e propria sottocategoria, quella degli attori di fotoromanzi. Abbiamo allora l’arrivo dei re di questo genere: Franco Gasparri e il suo eterno rivale Franco Dani, Katiuscia, Michela Roc, Pierre Clement, Marina Coffa, Francesca Rivelli (che non aveva ancora assunto il nome d’arte di Ornella Muti) e Max Delys. Il fotoromanzo era un genere in continua crescita, che garantiva guadagni cospicui senza presupporre il bisogno di saper recitare. È stato infatti, nel corso degli anni, rampa di lancio per “belli” come Sebastiano Somma, Roberto Farnesi, Kabir Bedi, Massimo Ciavarro, Fabio Fulco, Enrico Mutti, Antonio Zequila, Manuela Arcuri, Alessia Merz, Giuliano Gemma. Un mondo praticamente infinito che entra in crisi quando, alla fine degli anni Ottanta, esplode la televisione ed arrivano le soap opera.

La “Lancio” finisce addirittura in liquidazione e Franco Dani si dà alla musica mentre gli altri “belli” passano in blocco al piccolo schermo, mettendo in evidenza la loro scarsa attitudine alla recitazione.

Il ritorno di Kolossal e Sogno Proprio quando tutto sembrava finito, è arrivato il Covid. Da qualche soffitta polverosa alla Sprea editrice riemergono centinaia di fotoromanzi degli anni Sessanta e Settanta. Da qui l’idea di ripubblicarli in versione integrale, anche se i fotogrammi originali sono andati perduti e si è dovuto scannerizzare vecchie copie rinvenute nei mercatini. Spiega Sprea: «Più della qualità delle facce degli attori, che sono state il segreto del successo di allora, ci ha colpito la freschezza di queste storie, le stesse che si vedono oggi in tv». Tornano così in edicola “Sogno” e “Kolossal”. Proprio di quest’ultimo abbiamo letto il numero del mese scorso, che ripropone una storia del 1978 con protagonisti Max Delys e Marina Coffa: “Adesso puoi lasciarmi…addio”. Sveva, ad un passo dal matrimonio col ricco Ermanno, viene a sapere che Sebastian, il suo ex fidanzato bohemien è ricoverato in ospedale dopo un’overdose. Sveva decide allora di aiutarlo a disintossicarsi, così torna a vivere l’amore che fu. Ma il percorso è difficile e Sebastian cade in tentazione, arrivando quasi a mettere le mani addosso a Sveva che aveva distrutto l’eroina procurata dal ragazzo. L’unica soluzione è ricoverarlo in una clinica, e Sveva sottrae i soldi al padre per pagarne una, finendo per prendere un letto a sua volta, pur di star vicino al suo vero amore Sebastian. È sicuramente una storia particolare, e desta stupore che in un fotoromanzo si affrontino temi del genere. Quel che colpisce è la differenza di registro tra il linguaggio “alto” di Sebastian l’artista e la “semplicità borghese” di Sveva. Certo, la raffigurazione del mondo della droga è molto stereotipata, però risulta funzionale al contesto editoriale e al messaggio di fondo, soprattutto. Sebastian infatti, “ha perso la corsa della vita a causa di quella robaccia”. Sveva accetta di scendere nei bassifondi dell’anima e della società pur di accompagnare il suo amato nel percorso di catarsi. Insomma, una storia inaspettatamente toccante.

Sveva, l’ingenua borghese, si avventura nei bassifondi e conosce il terribile spacciatore chiamato “Il turco”, che però sembra Bombolo Conclude l’editore Sprea: «Bisogna raccontare storie da film ma che siano verosimili, che possano accadere anche a te». E forse non succederà mai di trovarmi ad un tavolo a parlare di tramonto dell’arte informale e parassitismo borghese, ma se i fotoromanzi sono creati per sognare, ammetto di aver sognato. E allora l’esperimento è riuscito.


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CAMERIERA

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Francesco Vezzoli e il ritorno del fotoromanzo in edicola: «Siamo tutti cameriere che sognano l'amore» Ritorna in edicola dal 24 luglio per Sprea Editori «Sogno», la rivista che ha segnato un'epoca sdoganando i fotoromanzi in Italia tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Ne parliamo con l'artista Francesco Vezzoli, tra i sentimenti sgorgati dai falò di «Temptation Island» e il motto di Gianni Agnelli che diceva che l'amore era «per le cameriere» di Mario Manca 28 luglio 2020 Francesco Vezzoli e il ritorno del fotoromanzo in edicola «Siamo tutti cameriere che sognano l'amore»

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Sogno: il ritorno dei fotoromanzi «Quando ero adolescente sui giornali si leggeva sempre questa frase dell'Avvocato Agnelli che diceva che innamorarsi era una cosa da cameriere. Al di là del fatto che oggi sarebbe impronunciabile perché ritenuta politicamente e altamente scorretta, mi verrebbe da dire che oggigiorno siamo tutti diventati un po' cameriere». A parlare è Francesco Vezzoli, un artista che ha sempre destrutturato in maniera sapiente l'immaginario pop e che oggi discute con noi il ritorno in edicola di Sogno, la rivista fotoromanzesca che ha spopolato nell'Italia degli anni Cinquanta e che torna a partire dal 24 luglio per Sprea Editori. L'obiettivo è quello di rispolverare un mondo, quello del fotoromanzo, che, per dirla alla Vezzoli, ci ha fatto scoprire un po' tutti «cameriere» e che ha coltivato in noi non solo l'empatia per i divi, da Sophia Loren a Franco Gasparri, che prestavano il volto alle tavolette in bianco e nero di quelle pagine, ma anche la curiosità per quelle storie a puntate che hanno stregato gli italiani per più di un trentennio.

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Nato in Italia ed esportato in tutto il mondo, da sempre associato a una nota dispregiativa nonostante l'arte abbia riscoperto il suo valore restituendogli dignità solo in anni recenti - una copertina di Sogno degli anni Cinquanta con la Loren, al tempo conosciuta come Sofia Lazzari, è tuttora esposta al MoMa di New York -, il fotoromanzo diventa un mezzo vintage per indagare alcuni meccanismi ancora vivissimi oggi. «Ci innamoriamo, sbirciamo dai buchi della serratura tutti gli Instagram di quelli più belli e più ricchi di noi. Il mondo è diventato più vanitoso, superficialmente romantico, ed è per questo che il fatto di ripubblicare i fotoromanzi non mi stupisce» spiega Vezzoli, che risponde al telefono dalla Calabria, con una puntata di Don Matteo in sottofondo - «È una visione molto pacificante, specie se sei in vacanza. Poi c'è anche il maresciallo che è un bonazzo, e la cosa non guasta». Parlare del fotoromanzo, di titoli come Lancio e di personaggi iconici come Katiuscia, interpretata da Caterina Piretti, una delle dive più apprezzate del genere poi caduta nel baratro della droga fino alla conversione al buddismo e la rinascita, è un continuo rimando tra il passato e il presente, tra quello che sembra lontano anni luce e la consapevolezza che quel trascorso ha semplicemente cambiato forma, cucendosi addosso un vestito che pare nuovo ma è in tutto e per tutto riciclato. «D'altronde -continua Vezzoli - è vero che si sposano sempre meno persone, ma si continua a combattere perché tutti possano farlo: è lo specchio di un'esigenza d'amore, di un afflato amoroso, per usare una parola un po' nostalgica. L'ho spiegato anche nel progetto Love Stories che ho realizzato per la Fondazione Prada».

In cosa sopravvive il fotoromanzo oggi, secondo lei?«Se ci pensiamo, programmi come Temptation Island e Uomini e Donne, al di là del fatto che siano le propaggini di Agenzia Matrimoniale di Costanzo, hanno come fulcro la pura discussione dei sentimenti. Non si nomina un libro, un pittore o un partito politico: non si parla mai di fatti concreti, ma solo di come le persone vivono il sentimento. Se analizzassimo da un punto di vista sociologico la situazione mediatica attuale, ci accorgeremmo che siamo molto più sentimentali di quanto non lo fossimo prima».

Eppure il fotoromanzo, specie dai salotti bene, è sempre stato considerato in maniera dispregiativa, come il classico mezzo a uso e consumo delle masse.«È un filo rosso che parte da inizio secolo, ma che potremmo collocare ancora più indietro. Partiamo dai feuilleton: tutti lo leggono ma nessuno direbbe che è nobile letteratura. Colette, la J.K Rowling del primo Novecento, viene rinchiusa in casa dal marito e scrive novelle, alcune belle e altre più brutte. Poi viene Liala, ma anche i film di Materazzo, che sbancano il botteghino ma che non ottengono nessun riconoscimento accademico, così come tutto quel filone del cinema degli anni Cinquanta con Amadeo Lazzari e Yvonne Sanson, snobbato dalla critica nonostante mia nonna passasse i pomeriggi a piangere vedendo Figli di nessuno. Poi arrivano i fotoromanzi, le soap opera, sempre mossi dall'illusione di poter vivere l'amore su uno schermo, sulla carta stampata o su Instagram. Raramente questo bisogno viene riconosciuto dalla critica: le persone lo vedono, ma negherebbero in pubblico di farlo».

La cosa particolare, però, è che dive come Sophia Loren e Raffaella Carrà oggi non ricordano l'esperienza dei fotoromanzi con snobismo, ma con tenerezza.«Viviamo in un momento storico in cui tutti cercano di riconquistare il rapporto con i sentimenti popolari e di catturare le masse. Le élite oggi non interessano più a nessuno: il fatto che ritornino i fotoromanzi è fisiologico di questo».

Tra i fotoromanzi e i protagonisti che vi prendono parte, spesso la realtà supera la fantasia: come nel caso di Katiuscia, che nella vita reale sperimenta un ciclo di caduta e di rinascita che sembra scritto da uno sceneggiatore.«Ritengo interessantissimo vedere queste celebrità che valicano lo specifico del loro medium: dal punto di vista letterario, le loro sono vite molto interessanti, magari camminano per strada, passano di fronte all'indifferenza di molti, e poi incontrano uno che li abbraccia e piange al loro cospetto. Bisognerebbe fare un film su Katiuscia: se qualcuno me lo producesse, lo farei io».

Più che le storie in sé, a rimanere impressi sono soprattutto gli sguardi sospesi di questi divi, non crede?«Gli attori vengono costretti a utilizzare una loro naturale espressività prestandosi a una narrazione. Più che le sceneggiature, mi colpiscono questi volti che sembrano sempre persi dentro a un vuoto colmato dai dialoghi: se togliessimo le frasi, sembrerebbero le figure di un film di Antonioni».

A un certo punto il genere conquista la dignità artistica: lei come lo valuta questo processo?«Se è arte un fumetto, perché non può esserlo un fotoromanzo, un genere che ha dentro di sé la parola "romanzo", "romanza"? Se il fumetto è musica pop, il fotoromanzo è opera lirica. Qualsiasi cosa raggiunga il cuore delle persone è degna di analisi e va presa in considerazione. Quando, per esempio, ho ricamato lacrime sulle facce delle attrici, l'ho fatto perché nella storia dell'arte mi sembrava che quel sentimento fosse stato cancellato e volevo farlo rientrare dalla finestra. Oggi è la stessa cosa, solo che a rientrare dalla finestra è il fotoromanzo».

Ripubblicare i fotoromanzi oggi, nel 2020, non teme che possa solleticare una certa riscoperta del collezionismo mettendo da parte il puro consumo?«Io non sono un collezionista, mi affascina molto di più più la dipendenza emotiva del leggere. Se parliamo di collezionismo l'artista lo connette subito a qualche forma di speculazione mentre, per quanto riguarda i fotoromanzi, dovremmo essere molto più interessati a chi ha voglia di sfogliarli. Ci saranno persone con le case piene di vecchi numeri di Grand Hotel, ma mi intriga più una signora con un fotoromanzo in mano per chiederle perché lo legga».

Le «cameriere», insomma.«Se penso al trono eterosessuale di Uomini e Donne, con questi uomini che piangono e sdoganano l'emotività, capisco che sono questi gli sviluppi importanti: se fanno parte della nostra personalità, è giusto che non siano repressi. Se il fotoromanzo è lì per chi vuole sognare in quest'estate nella quale tutti abbiamo bisogno di sognare l'amore, ben venga. Al motto di "siamo tutti cameriere"‘.


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ato in Italia nel 1947, il fotoromanzo ha conosciuto un successo immediato, e per più di venti anni è stato uno dei protagonisti dell’editoria internazionale. In Francia ha esordito negli anni cinquanta grazie al settimanale Nous deux. Nel 1957 il giornale contava un milione e mezzo di persone che lo leggevano, ed erano soprattutto lettrici.

Nonostante la sua grande popolarità, per molto tempo è stato considerato un genere minore della letteratura e raramente ha catturato l’attenzione degli storici dell’immagine o quella dei musei, o di altri centri dedicati all’arte. Una mostra al Mucem di Marsiglia ne ripercorre la storia, dalle origini alle influenze sugli artisti contemporanei.

Trecento le opere esposte, tra cui riviste, fotografie originali, prove d’impaginato, film, e materiali inediti provenienti dalla collezione Arnoldo Mondadori, editore che tra gli anni quaranta e ottanta pubblicò migliaia di fotoromanzi.

Attrici famose come Sophia Loren e Gina Lollobrigida hanno posato per queste riviste, anche se molti accusavano le pubblicazioni di sentimentalismo e di perversione. Parte della mostra è anche dedicata alla diffusione del genere in Spagna, Libano, Argentina.

Anche se l’età d’oro del fotoromanzo è finita, alcune riviste sono sopravvissute, come Noux deux, considerata dal semiologo e scrittore francese Roland Barthes – affascinato dal genere – “più oscena di Sade”. Oggi la rivista distribuisce 350mila copie a settimana e si può leggere anche su tablet.

La mostra Roman-photo al Mucem di Marsiglia durerà fino al 23 aprile 2018.


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LIBRO

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ilvana Turzio Il fotoromanzo Metamorfosi delle storie lacrimevoli

Che cosa ha significato il fotoromanzo per la cultura italiana? Cosa ne ha determinato l‘impressionante successo nel corso degli anni Cinquanta? Superando l’idea di un prodotto subculturale in cui si narrano solo banali storie d’amore a lieto fine, Silvana Turzio ripercorre l’evoluzione di questo genere, di fama ambivalente, indagandone i rapporti con il cinema e la letteratura “popolare” (dal rosa al giallo), ma non solo.


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Cos’è un fotoromanzo? Un perfetto congegno narrativo, degno delle più sofisticate teorie narratologiche, o la scenografia a tinte edulcorate entro cui immergersi per vivere passioni impossibili? Silvana Turzio lo racconta nel saggio Il fotoromanzo Metamorfosi delle storie lacrimevoli (Meltemi, pp. 214, € 24,00), dopo aver già esplorato il terreno in occasione della mostra Fotoromanzo e poi…, al festival Fotografia Europea 2018 di Reggio Emilia. Le parole che Michel de Certeau dedica alla lettura ne L’invenzione del quotidiano, costituiscono la premessa metodologica attraverso cui comprendere il successo del fotoromanzo. Egli afferma che il lettore, dinnanzi a un testo, non si limita a leggerlo passivamente, ma gioca d’astuzia: è «un Robinson in un’isola da scoprire». E come esempio cita proprio «Nous Deux», copia fedele di «Grand Hotel», esportato in Francia nel 1947 da Cino Del Duca, che lo aveva ideato con i fratelli Domenico e Alceo. Una lezione simile l’hanno appresa anche le lettrici di fotoromanzi, ma non tanto da Robinson Crusoe, quanto da Emma Bovary, cresciuta a colpi di romanzi rosa e morta suicida per aver desiderato un orizzonte meno ordinario di quello che, suo malgrado, si era scelta. Il fotoromanzo può dunque diventare il veicolo per indicare la possibilità di un cambiamento culturale; a tale proposito il fenomeno delle «cinquanta sfumature» potrebbe suggerire nuovi interrogativi. Leggere, ricorda la Turzio, è un atto di libertà soggettiva, che si può sottrarre in modi imprevedibili alle imposizioni dei gruppi dominanti. E questo vale soprattutto per le storie d’amore, che diventano la porta d’accesso a una realtà nuova, strumento per una trasformazione intellettuale. L’anno di nascita è il 1946. Il primo numero di «Grand Hotel» esce il 29 giugno. È un vero boom editoriale, in sintonia con l’entusiasmo della ritrovata libertà e di una speranza cullata tra mille privazioni. La tiratura di centomila copie, alta per l’epoca, è esaurita in meno di una settimana. L’anno successivo compariranno sul mercato altre due importanti pubblicazioni: «Il mio Sogno», che poco dopo diventerà «Sogno», della casa editrice Novissima, e «Bolero Film» della Mondadori, con cui collabora anche Damiano Damiani. Il terreno è fertilissimo. Nella prima parte del saggio, che ha un taglio prevalentemente storico, Silvana Turzio si sofferma sulle numerose forme di editoria popolare, nelle quali la presenza massiccia di illustrazioni ha favorito la diffusione del fotoromanzo come collettore di narrazioni visive. Sono tante e hanno grande diffusione: le dispense popolari illustrate, che prendono il posto dei romanzi d’appendice, nelle quali disegnatori e pittori eccellenti attirano il pubblico con vivaci copertine a colori; i cineromanzi, trailer illustrati che dalle casse dei cinematografi finiscono sul comodino. E ancora altre pubblicazioni, fra cui il settimanale «Le Grandi Firme», diretto dal 1937 al 1938 da Cesare Zavattini, che vi introduce alcuni brevi «fotoracconti»; «Cinevita», nato nel ’35, «Cine-Romanzo», ’29. E di questo non ci si può stupire, poiché l’onnipresente immaginario cinematografico è il luogo a cui tendono le aspettative dei lettori. La copertina del primo numero di «Grand Hotel» allude all’omonimo film del 1937 con Greta Garbo. Dal punto di vista tecnico nulla è lasciato al caso. Nel 1956 viene addirittura pubblicato un manuale per operatori fotografici, di Ennio Jacobelli, dal titolo Istruzioni pratiche per la realizzazione del fotoromanzo. La professionalità è un requisito essenziale, sia per chi ci lavora, registi, attori e fotografi, sia per gli strumenti utilizzati, come la stampa a rotocalco, che permetteva di ottenere una migliore qualità nella riproduzione delle fotografie. La medesima attenzione viene dedicata all’uso della parola. Silvana Turzio suggerisce una connessione tra la fotografia, il fotoromanzo e la riproducibilità meccanica del suono. Nel 1886 Félix Nadar propone al chimico Eugène Chevreul un’intervista. Mentre il figlio Paul scatta le foto, Nadar ricorre all’uso del «fotofono» di Clément Ader, prototipo del registratore, per incidere il dialogo. Ma il fotofono non funziona, e Nadar è costretto a trascrivere il testo sotto le fotografie. Il risultato è una sequenza di immagini corredata dal linguaggio parlato, e per questo facilmente accostabile alla «nuvola parlante» dei fumetti e dei fotoromanzi. Poche parole, poiché il testo deve essere corto e leggibile. In tal modo riesce a svolgere anche una nobile funzione: alfabetizzare il pubblico. E chissà cosa avrebbe detto Manzoni nel vedere I Promessi Sposi in versione fotoromanzo per gli «Albi di Bolero Film». Ma in cosa credono le donne che leggono queste storie d’amore? Nella seconda parte del saggio («Il fotoromanzo del consenso») l’autrice passa in rassegna le diverse risposte che i due maggiori schieramenti politici dell’epoca hanno dato allo stesso tema. Per i cattolici il fotoromanzo corrompe la gioventù, per i comunisti annuncia la morte della lotta di classe; tuttavia i fronti non sono così monolitici. Se nel Pci, tanto Enrico Berlinguer che Nilde Iotti condannano il fotoromanzo, Gianni Rodari, dalle pagine di «Rinascita» (1952), replica che il bisogno di vedere è un sintomo del bisogno di cultura, persino se si tratta di «Grand Hotel». In generale, però, la sinistra rimane ancorata a una forma di sapere che privilegia il dato razionale della parola rispetto alle variabili soggettive, e potenzialmente devianti, dell’immagine. La risposta ufficiale del Pci, con l’eccezione di «Noi Donne», che pubblica il primo fotoromanzo nel 1947, è la diffusione dei racconti a disegni sulla vita di Gramsci e Di Vittorio (’58). Il mondo cattolico intuisce ben presto, invece, l’utilità di un progetto politico costruito a partire da un «Sogno». Eredi di una tradizione che risale ai gesuiti e alla loro precoce intuizione del valore pedagogico della teatralità, la Chiesa e la Democrazia Cristiana si dimostreranno ben consapevoli del valore strategico della rappresentazione scenica e ne faranno un uso sapiente, senza tralasciare alcun mezzo. A partire dal 1959, per ventisei anni, su «Famiglia Cristiana» vengono pubblicati cinquantatré fotoromanzi. Un caso esemplare è Sangue sulla palude, del ’60, dedicato alla vita di Maria Goretti, modello edificante di ineccepibile virtù da proporre alle giovani donne. Nel 1977 tutto cambia. Nella terza e ultima parte del libro Silvana Turzio si sofferma su alcuni modelli di rilettura del genere tra cui: tre opuscoli del Gruppo Strum (Architettura Strumentale) di Torino, realizzati in occasione di una mostra sul design italiano al MoMA nel 1972; i foto-racconti-lampo dello psicologo Luigi De Marchi, legati ai temi della sessualità, e alcuni esempi di messa in discussione burlesca del fotoromanzo. Ci provano riviste come «Il Male»,«Frigidaire» e «Frizzer», specchi di una élite culturale sperimentatrice e autoironica, capace di autorappresentarsi nel dispositivo di cui gli autori sono anche attori e registi. Grande consenso di critica, ma non le tirature di «Famiglia Cristiana». Liquidare il fotoromanzo come un contenitore di storie lacrimevoli è ingiusto oltre che superficiale. Questo genere ha saputo raccontare per diversi decenni l’immaginario di milioni di donne permanentemente escluse dai circuiti della cultura e della politica. Sono passati più di cinquant’anni da quando Silvana Mangano, in una scena di Riso amaro, stringe fra le mani una copia di «Grand Hotel». Oggi i reality e i social hanno sostituito i fotoromanzi. Può accadere che il rimosso ritorni, come in Ricordami per sempre del 2011, commissionato dal Mu.Fo.Co. di Cinisello Balsamo. Un titolo che suona come un invito. Michelangelo Antonioni l’avrebbe definito un’amorosa menzogna.

SITUAZIONE

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Revue Internationale Situationniste

España en el Corazón [Vaneigem, Raoul] l'Internationale Situationniste Région Ouest-Europe Paris: Internationale Situationniste, 1964. First edition. 5 3/8 x 12 1/2" broadside, illustrated with two detourned pin-up photographs. Text in French and Spanish. Folded once, and housed in the original rubberstamped mailing envelope from the IS.

Broadside which takes its title from the poem by Neruda concerning the Spanish Civil War, denouncing the relationship between the Catholic Church and Franco's regime.

Photographies détournées de pin-ups pour les tracts clandestins « España en el corazón, Revue Internationale Situationniste, 1964

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